venerdì 10 gennaio 2020

quando l'Australia rapì i miei figli... lo scontro di Alfonso Luigi Marra, avvocato ed ex parlamentare europeo, con quel paese

quando l'Australia, nel 1985, rapì i miei figli. Ovvero della fatalità del mio scontro con quel paese e della fatalità di essere essa il primo paese occidentale a dover soccombere alla catastrofe climatica.  
l'Australia in fiamme
 La detestavo così tanto l’Australia (gli australiani) che, nel 1987, in “Da Ar a Sir”, pur avendo fatto un grande sforzo per impedire all’odio di impadronirsi della penna, finii per scriverlo che «se fossi stato un dio della mitologia greca, l’avrei scagliata sotto le onde dell’oceano», sicché ora, vederla finire a fuoco, oltre ad addolorarmi profondamente, mi crea un grande disagio per quell’anatema che le scagliai. Perché le fiamme non si spegneranno finché ci sarà qualcosa che possa bruciare. Fermo restando che la vera apocalisse sarà tra poco, quando lì – come qui e in ogni dove – le temperature cominceranno a superare sistematicamente i 50 e più gradi.

Scontro fatale perché il fato secondo la concezione greca simbolizza che in ciascuno, in virtù delle caratteristiche genetiche, delle esperienze formative, e del modo e della misura in cui le pulsioni fondamentali interagiranno, andrà consolidandosi una struttura caratteriale e una corrispondente posizione volitivo/umorale (il suo io) che connoteranno ogni suo gesto.

Gesti che, in quanto univocamente connotati dall’ambito motivazionale di fondo, produrranno tipologie di eventi caratterizzati da costanti anch’esse di fondo, che causeranno il formarsi di una spirale di concomitanze univoche che sempre più lo attrarranno verso un tipo di esistenza coerente alla tipologia di spinte che lo muovono. Una spirale sempre più ampia ed irresistibile man mano che i gesti si sommeranno ai gesti e gli eventi si sommeranno agli eventi, e che costituisce appunto ciò che i Greci identificarono come fato.


Alfonso Luigi Marra, avvocato ed ex parlamentare europeo
Scontro fatale perché l’Australia era il mio antipodo geografico e culturale, ed il mio percorso culturale non avrebbe potuto completarsi se non misurandomici, così come la sua distruzione è, invero solo simbolicamente e non razionalmente, pur essa fatale perché è il Paese ‘migliore nell’essere il peggiore’ nella pratica delle concezioni consumistiche.

Australia per la quale nel 1994, da parlamentare europeo, sarei poi diventato membro della Delegazione del Parlamento Europeo e che, dal 1985, per 13 anni – a furia di pagine intere sui suoi massimi giornali, di atti giudiziali in forma di libri (tra cui appunto “Da Ar a Sir”: una storia della cultura che costituiva in realtà il mio ricorso alla Higth Court of Australia avverso l’omologazione di Stato del rapimento dei miei figli Giulio e Attilio), di ininterrotte circolari in inglese inviate ogni volta a tutti gli avvocati, magistrati, deputati, giornalisti e quant’altri, anche inglesi e di altri Paesi – si sarebbe auto eletta mio avversario nello scontro per ottenere dalla sua magistratura il rimpatrio dei miei figli, rapiti, in un gesto di eterna vendetta per il mio abbandono, dalla mia prima ex moglie.

Australia che, quando infine entrambi i miei figli, ormai maggiorenni, rientrarono in Italia da sé, aveva respinto, in 13 anni di continue cause, tutte le mie sacrosante azioni giudiziali per il rimpatrio (ripristinando invece il diritto all’accesso), con una durezza, una protervia, uno spregio del diritto e dei diritti umani, un’impermeabilità alla scienza e alla cultura, un’inqualificabile parzialità, che non cessavano mai di stupirmi in un Paese così ‘civile’.

Un’intera nazione australiana, perché nessuno disse una parola in mia difesa, in difesa delle ragioni della civiltà. Un’Australia che, nella grande sofferenza per quello che avevano fatto ai miei figli, a me, alla mia famiglia, avevo nei miei libri definito xenofoba, becera, incolta, fibrillante di un delirio di psicotica presunzione, un Paese dove, nelle vanagloriose visioni dei suoi cittadini, nei fiumi scorre il latte e le montagne sono fatte di marzapane, steaklandia eccetera. Per non parlare di quel che ne ho scritto ne “Il complesso di Santippe”.

Un’Australia che ora è il Paese dove vive mio figlio Giulio, sua moglie Sheryl, la mia nipotina Zelda, la sua sorellina Maya, ora in Italia per vacanze, e che spero si decidano a non rientrare, perché ho già detto che non ritengo cesserà più di bruciare.

Un’Australia che sapevo avrebbe ceduto per prima, ma che, da quando la cronaca giornaliera del suo cedere è divenuta apocalittica, non posso più odiare e che vorrei ci fosse il modo di salvare.

Tutt’altri stati d’animo da quando, nell’agosto del 1985 - nel mentre, per avere pubblicato la “Lettera di dimissioni di un avvocato della CGIL dal PCI e dal sindacato”, la “Lettera a Reagan”, ma soprattutto “La storia di Giovanni e Margherita”, subivo il livello di recriminazione più articolato, complesso e subdolo che si possa immaginare – la mia ex moglie, australiana di origine, residente a Napoli fin dal 1969, e che pure a Napoli avevo sposata nel 1973, anziché recarsi, come convenuto, all’isola d’Elba, per un periodo di vacanze, pensò bene, in seguito alla nostra separazione, di sfruttare quell’ostilità per darmi un buon colpo rapendo i nostri due figli, Giulio e Attilio, rispettivamente di tre e cinque anni e mezzo, entrambi nati e cresciuti a Napoli, trascinandoli con se in Australia.

Australia dove, nel mentre mi adoperavo per capire, reagire, porre rimedio, presentava un ricorso di 33 righe all’autorità giudiziaria in cui, premesse le generalità, premesso che c’eravamo separati e che lei ‘si trovava’ ora in Australia, nonché omessa – sul presupposto palese della più ampia disponibilità delle Istituzioni – ogni spiegazione in merito alla fuga e al rapimento, chiedeva l’affidamento esclusivo dei bambini scrivendo, quale unica motivazione: «Ho paura che mio marito ottenga in Italia un provvedimento giudiziario e che possa metterlo in esecuzione venendo in Australia e riportando i bambini in Italia con sé».

Paura dei provvedimenti della magistratura italiana che bastò da sola a indurre il giudice, senza neanche disporre che l’atto mi venisse notificato, ad accogliere la domanda delegittimandomi quale padre mediante copia di un ‘Order’ molto più simile a un certificato comunale che a un atto giudiziale e negandomi ogni diritto di intervenire nell’educazione dei miei figli o anche solo a fare loro una semplice visita o telefonata, salvo il consenso della madre, unica affidataria.

Prima parte della ‘procedura’ che non dava certo adito alla speranza, ma nonostante la quale non demorsi, per cui, dopo una via crucis durata quasi un anno per la difficoltà di agire in un posto tanto lontano, e durante il quale non seppi mai dove si trovasse, riuscii a comparire, a suon di milioni (di lire), dinanzi al tribunale della famiglia di Melbourne dove, per ben tre giorni, si svolse la causa più ipocritamente compita e inutile della mia vita di avvocato, visto che l’esito di quel giudizio era segnato, e i tre giorni trascorsero non, come in un primo momento avevo creduto, alla ricerca di tutti gli elementi utili per giungere a una decisione ben ponderata, ma alla ricerca meticolosa di un qualsiasi elemento atto a dare un minimo di fondamento alla decisione, assunta a priori, di resistermi in ogni modo e con tutte le forze, stante la mia qualità di eversivo in quanto portatore di un sapere antitetico alle logiche del sistema.

Momento in cui, nel tornare in Italia in preda ai sentimenti che lascio immaginare, mi resi conto che, ancora una volta, non si trattava di convincere, ma di vincere, e scrissi così un atto di appello che – preceduto da una serie di brani tratti dai miei libri, i veri imputati di quel processo – inviai per posta a tutti gli avvocati, i magistrati e i parlamentari australiani, con il titolo di “Lettera di un avvocato italiano agli intellettuali australiani”: un’opera scritta, appunto, non per convincere qualcuno della fondatezza delle mie richieste, invero ovvia, ma con l’obiettivo di bruciare a priori gli argomenti che prevedevo sarebbero stati utilizzati per rigettarle. Con il risultato che la Corte, pur alle strette, si limitò a pronunciare una sentenza che, per quello che valevano gli argomenti in essa svolti, rappresentava un puro gesto di autorità e l’equivalente di un semplice no.

Pubblicai allora l’“Atto d’appello” anche in italiano e lo inviai ai nostri parlamentari, contando che taluno si ribellasse allo spettacolo ignominioso della mia solitudine di fronte a un avversario tanto più grande e organizzato, e mi sostenesse nell’affermazione delle ragioni dei miei figli e mie, che erano di fatto anche le ragioni della civiltà e della corretta interrelazione fra Stati. Ma non si ribellò proprio nessuno.

Capii allora che, se quello che mi accadeva era il risultato degli errori e della profonda degenerazione della cultura occidentale nel mondo, non avrei mai vinto quella causa se prima non fossi riuscito a modificarla. Che era poi la cosa che appunto, attraverso i miei libri, cercavo in tutti i modi di fare, e della quale, da qui agli antipodi, con quel rapimento mi si voleva punire.

E fu così che il mio ricorso all’Hight Court divenne una storia della cultura dalle origini ai giorni nostri: cultura che è l’ultima cosa al mondo alla quale si pensi veramente di dover dedicare un serio sforzo di bonifica, nonostante stia per causare da un momento all’altro o la morte di miliardi di uomini o l’estinzione del genere umano.

Un occidente che non sa cosa sia la moralità del dialogo, ed in cui cioè ciascuno continua ancor oggi, pur di fronte ad un così drammatico fallimento, ad usare le parole solo in funzione degli obiettivi infischiandosene di ogni loro rispondenza alla verità.

Un’Australia di cui allora era primo ministro Hawke, espressione dello stesso tipo di maggioranza che ha causato l’elezione di un soggetto come l’attuale Morrison, il quale insiste persino ora, pur di non scontentare il suo elettorato ed i suo padroni delle banche e delle miniere, nel suo folle negazionismo climatico.
10.1.2020, ALM    (Alfonso Luigi Marra)

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