Kevin Carter, fotografo sudafricano
Kevin Carter (Johannesburg, 13 settembre 1960 – Johannesburg, 27 luglio 1994) è stato un giornalista e fotografo sudafricano, diventato famoso per le sue controverse fotografie sulle condizioni umanitarie in Africa negli anni novanta che gli hanno dato fama internazionale. Una sua fotografia gli fece vincere il Premio Pulitzer, poiché ritrasse un bambina malnutrita inseguita da un avvoltoio, e fu una fotografia che testimonio la carestia in Sudan del 1993. Attivo come fotografo amatoriale fin dal decennio del 1970, nel 1983 si unì insieme ad altri fotoreporter con cui creo il Bang Bang Club, un'associazione di fotografi che testimoniavano i problemi e le atrocità dei problemi del mondo, in particolare delle terre africane, quali violenza povertà e malnutrizione.
Kevin Carter godette poco del suo successo poiché cadde in un profondo stato depressivo. La depressione di Kevin Carter iniziò quando, durante una intervista in un celebre programma radiofonico, qualcuno lo chiamò per chiedergli che fine avesse fatto la bambina. Carter rispose semplicemente:
"Non ho aspettato di scoprirlo dopo quella foto perché avevo un volo...".
L'interlocutore gli rispose: "Lasciate che vi dica una cosa: quel giorno c'erano due avvoltoi e uno aveva una macchina fotografica". Tali parole lo tormentarono per il resto della vita portandolo alla depressione e successivamente al suicidio. Kevin Carter potrebbe essere ancora vivo e molto più famoso se avesse preso in braccio la bambina e l'avesse portata in salvo presso un centro di alimentazione dove l'avrebbero sfamata o almeno portata in un luogo sicuro.
Episodi come questi accadono ogni giorno. Il mondo glorifica, magnifica e celebra il cinismo a spese di chi soffre. Kevin Carter avrebbe potuto portare via la bambina da quel posto, ma non l'ha fatto. Ebbe abbastanza tempo per scattare quella foto ma non il tempo per salvare quella bambina. Il senso della vita dovrebbe essere riposto nella nostra capacità di incidere positivamente su altre vite. L'umanità non può cedere il passo al calcolo, al 'guadagno' che possiamo trarre dalle circostanze e dalle persone. Ciò che abbiamo a disposizione dovrebbe essere da noi impiegato per rendere il mondo in cui viviamo un posto migliore per tutti e non soltanto uno spazio in cui dar sfogo alle nostre personali ambizioni, ai nostri interessi particolari, al nostro egoismo.
la bambina e l'avvoltoio, foto di Kevin Carter
Kevin Carter nacque a Johannesburg in Sudafrica nel 1960 da una famiglia della medio borghesia sudafricana, durante il periodo di maggiore diffusione delle leggi dell'apartheid in Sudafrica, che pur opprimendo la popolazione nativa africana nera, permetteva ai bianchi sudafricani di avere un ottimo tenore di vita, e la famiglia Carter, grazie al benessere diffuso tra la popolazione bianca, viveva in un quartiere ricco abitato però da soli bianchi, mentre nelle zone vicine c’erano i quartieri poveri della popolazione nera, che vivevano in povertà totale, e se si avvicinavano al quartiere ricco dei bianchi, venivano allontanati secondo le leggi dell'apartheid. Kevin Carter però pur essendo giovanissimo, restò colpito dalla violenza e dallo schiavismo della società sudafricana, e dalla violenza di quegli anni, in cui l'Umkhonto we Sizwe, l'ala armata dell'ANC iniziò a usare la forza nella lotta contro la segregazione dei neri, mentre la polizia e l’esercito sudafricano usavano la violenza contro i detenuti politici e contro le organizzazioni africane ribelli; Kevin Carter rimase inorridito quando vide che il mondo non era a conoscenza della dittatura della società africana, per questi motivi si avvicinò agli ideali di Mandela, diventando membro dell’African National Congress, e cominciò a prendere parte alle manifestazioni di protesta contro il governo razzista, dove chiedeva uguaglianza e diritti sociali per tutti. La sua lotta contro l'emarginazione dei neri e delle popolazioni non bianche del Sudafrica, gli fece però rischiare più volte l’arresto da parte della polizia sudafricana, ed il suo idealismo democratico fece sì che molti sudafricani bianchi lo considerassero un estremista pericoloso.
Dopo gli studi superiori iniziò quelli per diventare un farmacista, ma dovette abbandonarli quando venne arruolato per costrizione nell'esercito sudafricano, dove fece parte dell'aviazione per quattro anni. Ne seguì un periodo in cui venne impegnato nelle guerre dello stato sudafricano, in cui le violenze vissute gli causarono un periodo di depressione, durante il quale tentò di togliersi la vita. Congedato dalle armate sudafricane, decise di cambiare vita e dedicarsi alla fotografia. Abbandonò presto le fotografie sportive con cui aveva cominciato nel 1983 per dedicarsi alla testimonianza delle guerre e delle crudeltà che stavano avvenendo in quegli anni intorno a lui.
I fotoreportages
Nel 1984 venne assunto dal Johannesburg Star dove conobbe tra gli altri Greg Marinovich, Ken Oosterbroek e Joao Silva con cui costituì un gruppo che sarebbe stato chiamato Bang Bang Club. Comincia così a documentare le crudeltà che la guerra civile aveva portato in Sudafrica: esecuzioni sommarie, uccisioni a colpi di machete e il cosiddetto “necklacing”. Carter è stato il primo giornalista a pubblicare un articolo sull'esecuzione chiamata "supplizio dello pneumatico" in Sudafrica nella metà degli anni ottanta.
Esecuzione della tortura dello pneumatico: l’esecuzione di questa tortura è abbastanza semplice: si legano mani e piedi delle vittime e poi si mette loro al collo uno pneumatico, a volte forzandolo sulle spalle per immobilizzarle, proprio come una collana. Poi si cosparge la gomma di benzina e le si dà fuoco. La morte è lenta e terribile, si viene bruciati vivi.
Successivamente, dirà di quelle immagini: "Ero sconvolto vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi le persone hanno iniziato a parlare di quelle immagini... così ho pensato che forse le mie azioni non sono state poi così cattive. Essere stato un testimone di qualcosa di così orribile non fu necessariamente un male." Questo lavoro creò un dilemma interiore in Carter poiché da un lato era sconvolto dalla crudezza delle immagini che ritraeva e dalla sua freddezza nello scattarle, dall'altro era consapevole che in questo modo poteva far accendere l'attenzione globale sulla situazione sudafricana e sperare di poter far cambiare qualcosa.
Il Premio Pulitzer
In seguito a una serie di problemi con la redazione del giornale, dovuti anche al suo abuso di droghe, Carter decise di prendersi un periodo di pausa e nel marzo del 1993 si recò in Sudan per documentare la guerra civile in corso e la carestia che aveva sconvolto il paese. È qui che scattò la sua foto più famosa: il ritratto di un bambino denutrito che accasciato a terra cerca di raggiungere il centro di aiuti e sullo sfondo un avvoltoio che lo osserva quasi ne stesse aspettando la morte. Immediatamente la foto fece il giro del mondo apparendo nelle copertine delle riviste più importanti e permettendo a Carter di vincere un Pulitzer. Allo stesso tempo dette vita a una serie di polemiche che indagavano il ruolo del fotografo nello scatto della foto. La gente cominciò ad interrogarsi sul destino del bambino e sulla moralità della fotografia.
Carter non fu mai chiaro su quello che successe al momento dello scatto e raccontò diverse versioni della vicenda. Secondo alcune versioni avrebbe aiutato quella che si sarebbe rivelata una bambina, secondo altre avrebbe aspettato per 20 minuti il momento migliore per scattare mentre egli stesso afferma di aver fatto solo il suo lavoro di fotografo e testimone, consapevole di non poter far nulla per cambiare le sorti della bambina. Certo è che lo scandalo mediatico che si creò turbò profondamente Carter che, tormentato dall'immagine della bambina che gli ricorda la figlia piccola che riusciva a vedere solo raramente, cadde di nuovo in una profonda depressione. La sua popolarità crebbe rapidamente quando il New York Times acquistò la foto nel marzo 1993 facendola diventare uno dei simboli della devastazione africana. Questo non fece che aggravare la sua situazione portandolo a peggiorare il suo abuso di droghe al punto che quando gli telefonarono per comunicargli la vincita del premio Pulitzer nel 1994 non capì cosa stesse succedendo e furono costretti a ripetergli più volte la comunicazione.
La morte
Il 18 aprile dello stesso anno, durante una spedizione per fotografare un'esplosione di violenza nelle vicinanze di Johannesburg, Ken Oosterbroek, il migliore amico di Kevin, venne ferito e ucciso durante una sparatoria mentre Marinovich riportò gravi ferite. Carter apprese la notizia dalla radio in quanto aveva abbandonato la spedizione per partecipare ad un'intervista e ne fu completamente sconvolto, ancor più perché non era presente in quel momento. La situazione per Carter divenne insostenibile al punto che decise di farla finita. Il 27 luglio 1994 guidò il suo pickup fino ad un parco dove giocava da bambino e lì si intossicò con il monossido di carbonio del tubo di scarico, morendo suicida all'età di 33 anni. Nella nota che lasciò scritta scriveva di non poter più sostenere la depressione, la mancanza di soldi e la persecuzione dei ricordi degli omicidi e dei cadaveri e del dolore che aveva visto, dei bambini affamati. La sua speranza era quella di essere abbastanza fortunato da raggiungere l'amico Ken.
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